Odio i giardinetti.

Da madre recidiva, dei giardinetti continuo a odiare tutto.

Partiamo dalle panchine. Le panchine sono lì all’unico scopo di prenderti per il culo, ti ricordano cioè che il tuo culo sul loro legno non si poserà mai, tu devi camminare come un orango dietro alla palla pazza che strumpallazza di due anni e mezzo.

Poi ci sono le altalene, le altalene sono sempre troppo poche, mentre quegli inutili dondolini singoli a molla sono tantissimi. È come in hotel dove si trova un solo campioncino minuscolo di bagnoschiuma ma venti cuffie per la doccia, che cazzo sono l’idra di lerna? quante teste devo coprirmi? Suppongo esista una lobby molto solida delle cuffie per la doccia, dei dondolini a molla singoli dei parchi e dei tovagliolini plastificati inutilizzabili dei bar.

Per le due altalene c’è una coda che non vedevi dai tempi del padiglione Giappone all’Expo, quando è finalmente il tuo turno, l’ansia e gli sguardi d’odio degli altri bambini rovinano ogni divertimento, una nonna sta facendo il malocchio alla tua creatura. Quindi fai sedere l’infanta, la spingi due volte fortissimo e poi la trascini via, lei urla, tu le spieghi che l’attesa dell’altalena è essa stessa l’altalena.

Io ho fatto tre figli nella speranza che la terza mi uscisse madonnara, i bambini madonnari sono la benedizione di ogni odiatore dei giardini, perché ignorano attrazioni e giochi e si dedicano al disegno sul selciato con i gessetti colorati di Tiger, aspirandone le polveri sedative. Naturalmente no, Andrea non è una madonnara, ma le madonne volano ugualmente.

Passando agli scivoli, essi non sono più semplici scivoli, sono architetture di Escher, con tunnel e buchi neri, piani e sopraelevate, un piccolo raccordo anulare in miniatura nel centro. Al loro interno i bambini riescono a farsi male in quindici modi diversi, così i genitori possono aprire scommesse su che tipo di piccolo contuso riporteranno a casa.

Padri e madri, negli ultimi anni, hanno appreso da Instagram a non usare il linguaggio tossico degli anatemi autoavveranti, insomma non si deve più dire “attento che ti fai male, non correre che cadi” perché crea ansia a diminuisce l’autostima. Sono preferibili forme più educative come “metti alla prova le tue capacità motorie in piena libertà, amore mio, potrebbe avere la meglio la forza di gravità, ma la forza d’animo ti rialzerà”.

Intanto, sedute sulle panchine, le elette, ovvero le mamme dei figli giocatori di calcio e le mamme delle figlie mercatini dell’usato di topolini e collane su marciapiede (due categorie che si autogestiscono senza bisogno dell’aiuto genitoriale), mi indicano con pena: “pensate che quella poveretta ne era fuori, pensate che aveva già figli che frequentano le medie ed è rientrata nel tunnel di sua spontanea volontà. Chi è causa del suo mal, smadonni sé stessa!”.

A creare ulteriori distrazioni, arrivano le feste di compleanno. Ogni giorno i parchi pubblici ospitano party a tema. Gli organizzatori sono ormai preparatissimi, parcheggiano il food truck e il dj set, c’è Clio Make Up per il truccabimbi e portano palloncini per far volare il Pirellone in UP! Sui palloncini vorrei aprire un capitolo a parte, perché c’è sempre uno stronzo che rischia l’enfisema polmonare per fare le sculture di baloon. Le sculture di baloon sono due palloncini annodati a simulare una spada, così a fine giornata i bambini si inseguono percuotendosi con dei goldoni sgonfi: una festa sponsorizzata Durex, insomma. Come se non fosse già il giardinetto stesso la migliore pubblicità anticoncezionale di tutti i tempi.

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Una cosa lunga lunga e trascurabile.

Nel 1999 mia madre prese qualche risparmio, salì su un treno diretto in Francia, attraversò la frontiera e, senza chiedere un parere a me o a mia sorella, acquistò un piccolo appartamento a Nizza. Credo che lo avesse acquistato a Nizza perché in francese suona tutto meglio, infatti studio nelle banlieue fa più effetto di bilocale all’aeroporto, ma di questo si trattava, di un bilocale vista pista di atterraggio. Durante le prime estati trascorse nell’amato studiò mi stupivo del numero di ragazze vestite di tutto punto che incontravo per strada, per tutto punto intendo troppo coperte per il caldo di agosto.

Io passeggiavo per il lungomare in copricostume e piedi nudi e loro in jeans, camicetta a volte giacca, tacchi alti, sembravano molto indaffarate. È che io ero in vacanza, loro lavoravano. Magari c’era stato un tempo in cui anche per quelle ragazze ogni momento era stato buono per buttarsi in acqua, per giocare con i cavalloni, per stendersi sulle pietre cedevoli che scricchiolavano sotto il peso della nuca e poi quel tempo era passato e con quel tempo la sensazione di eterna vacanza. L’amore che finisce mi sembra questo: la persona che hai amato, quella che è stata la tua vacanza, è lì, eppure non ti immergi, non ti scaldi al calore del suo sole, non ti rinfreschi alla sua brezza. Il corpo che hai abitato con tanto slancio, in cui ti sei tuffato con l’entusiasmo di giugno, ti è prossimo ma non sai più come goderne, ti annoia quasi e, in sua presenza, hai solo voglia di stare vestito, di tutto punto. Ci si stanca del mare, figurarsi delle persone.

Devo fare una precisazione, ho scritto “l’amore che finisce” ma ho sbagliato, avrei dovuto dire “le storie d’amore che finiscono”, infatti l’amore non finisce, come il mare, sono le storie che hanno questo brutto vizio di pretendere un principio e una conclusione, di prevedere chiacchiere, discussioni, parole. Invece una cosa che ho compreso dell’amore è il suo rapporto intimo con il silenzio. Non il silenzio degli umani, ma quello senza tensione degli animali, che non è preparatorio a nulla, non è suggello, non è punteggiatura, è fermo, pieno di se stesso, proprio come l’amore nella sua forma più assoluta.

Qualche tempo fa la mia bambina più piccola mi camminava a fianco, determinata, il nostro silenzio non aveva peso, forse per questo avrei giurato che durante quel piccolo percorso eterno stessimo parlando, ma lei non parlava ancora. Intorno un tempio di foglie e acqua del fiume. Passo passo non c’era altro che la sua mano nella mia, ero la sua mano nella mia. Ma ero anche la foglia e l’albero. E non c’era niente di importante se non le cellule, le nostre, che ci dicevano siete qui e ci sarete sempre, ci siete sempre state.

La natura selvaggia delle cose fa pensare alla fame, all’istinto predatorio, allo sbranare, alla sete e alla tensione alla fuga, è invece selvaggio ciò che non risponde alle regole della drammaturgia, né norma né ribellione, né tragedia né commedia, né inizio né fine. Abbiamo così paura del vuoto di senso che la notte, a occhi chiusi, proiettiamo nello schermo della mente immagini e parole e le chiamiamo sogni. Popoliamo tutto di narrazioni, sfuggiamo alla morte e al buio attraverso la narrazione, attraverso la fantasia.

L’arte inventa l’amore ogni giorno, lo evoca dal nulla, lo racconta nelle immagini, nelle note e nelle parole, lo trasforma e lo rende oggetto estetico. Tutti noi lo facciamo nel nostro piccolo. L’arte è la polpa di un nocciolo che però sta altrove e che possiamo tenere in mano solo per pochi istanti, come in quella passeggiata con la mia piccola.

In quel momento di amore puro, uno di quei momenti che accadono in punto di morte o in punto di vita, non avevamo bisogno di fantasia e di motivazioni. Come un randagio che non ha bisogno di un bastone da riportare per farsi una corsa lungo la spiaggia. Gli animali, i bambini, non si stancano del mare, non si stancano di amare perché non ci fantasticano intorno, non attribuiscono ruoli e aspettative, non vivono storie d’amore, ma sperimentano l’amore e basta. E quando è, basta.

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Impreparata.

Impreparata.

Finito il primo quadrimestre, pagelle dei figli bene, contenti i professori, contente le maestre, sono io quella piena di asterischi. Male in condotta. Economia domestica, gravemente insufficiente. Ogni giorno qualcuno mi chiede dei soldi e non parlo di acquisti quotidiani, di latte, mandarini, pane e tulipani. No, parlo delle scadenze per cui non dormi la notte, di tassi variabili, fissi, della burocrazia che ti prende a botte, di richieste che si moltiplicano come l’agente Smith davanti a Neo, solo che l’eletto a dar soldi questa volta sono io, per ogni pagato c’è un arretrato, non se ne esce, non tirare il fiato, non pensare di essere al sicuro, ti giri, non ti guardi le spalle, ti pieghi e arriva il siluro. La cosa assurda è che me lo rendete anche complicato il pagare, moduli su moduli che sbagli e alla fine paghi e ti devi pure scusare. Che poi davvero economia domestica la dovrebbero reintegrare, prima ora lezione di Spid, seconda Imu scritto e orale, sociologia della modulistica Inps, filologia della Tari, infine teoretica del mettersi in pari. Sono appena sufficiente anche in tecniche delle relazioni sociali, vorrei rispondere a tutte le mail quando mi arrivano, ai messaggi quando mi scrivono, avere più cura, vorrei ascoltare i vocali ma i vocali mi fanno paura, non so come altro spiegarlo, spesso li vedo e penso che siano richieste di riscatto, con sospiri e voce camuffata, io ai vocali preferisco la semplice chiamata. Chi mi conosce lo sa e allora inizia con Scusa se ti mando un vocale ma, un incipit buono per una canzone di Tiziano o un titolo di Moccia… perciò anche in relazioni sociali, mi sa che a giugno vedrai che mi boccia. Con persone, tempi, attese, verifiche fatte di mese in mese, i conti tornano più no che sì, quindi anche in matematica vado così e così. È che fatico a seguire il programma, che poi la mia vita è pure un’ottima scuola, ma guardo dal vetro e la mia mente vola, mi distraggo, chiacchiero, rido, mi faccio sbattere fuori, fatico a imparare dai miei stessi errori. Forse per me non vale l’alunna è sveglia ma non si applica, è che la vita non ha una grammatica, è materia fuggevole, oppure l’allieva in questione è solo disgrafica. L’alunna, cioè io, nonostante l’impegno merita ancora di qualche sostegno, perché per quanto vi giuro io l’abbia studiata, in questa vita all’appello sono l’impreparata.

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Inutili come il latino.

– Mamma, ma perché devo studiare l’analisi logica… è inutile!

– Non è inutile, ti servirà moltissimo.

– Ma a cosa?

– Per esempio a tradurre dal latino.

– Mamma, ma il latino è una lingua morta, non serve a niente.

Non è vero, a me è servita quest’estate a dare ripetizioni a S. mentre bestemmiava per l’inutilità del latino.

– Ha ragione S., il latino non serve a nulla.

– Va bene, il latino è inutile.

– Ecco.

– Ma sai cosa c’è di più inutile del latino?

– No.

– I figli. Anzi vai a chiamare le tue sorelle perché tanto questa storia dell’inutilità del latino o dell’analisi logica o del liceo classico salterà fuori prima o poi anche con loro. Dicevamo: a cosa servono i figli? A mandare avanti la specie ci hanno sempre detto, ma no, al momento il mondo è sovrappopolato, non sappiamo più dove metterci. Mi verrebbe da dire che siano financo controproducenti.

In più sono, anzi siete, un pessimo investimento economico. Assomigliate a piccole locuste, bambini miei, mangiate diverse volte al giorno, a intervalli regolari, bisogna coprirvi con vestiti, farvi studiare, mantenervi costosissimi corsi di pallacanestro acrobatica, laboratori di yoga dadaista. Questo per anni. È un dato che, dopo la fine del proletariato, i figli da un punto di vista produttivo non siano più serviti a niente di niente di niente.

Poi non so bene se avete sentito quella frase: sono tutte belle le mamme del mondo… è evidentemente una minchiata. Sono tutte belle le mamme del mondo, prima di diventare madri. Dopo, a voler esagerare, facciamo quello che possiamo con ciò che resta. Siamo brutte? No, sarebbe impreciso, abbiamo il fascino decadente delle città ricostruite dopo un bombardamento. Da qualche parte un muro crollato lo becchi, un cratere in mezzo alla strada lo trovi. I figli sono inutili ai fini estetici quindi. Eh ma quando sei incinta ti fanno venire le tette, ti dice qualcuno… mi pare un po’ pochino come risarcimento. Soprattutto perché non ti spiegano mai che insieme alla quarta di reggiseno, la maggior parte di noi si becca anche una quinta di emorroidi.

I figli non servono a fare carriera, più spesso la ostacolano. Non servono nemmeno a fare esperienza perché non siete una materia da imparare, siete fatti della stessa materia dei sogni, ma pure dei peggiori incubi, dell’ansia, siete imprevedibili e cangianti. Quindi non servite nemmeno per cultura generale. Non servite a tenerci in forma, è vero che si fatica fisicamente, ma in posizioni innaturali, la schiena spezzata, ingobbita dietro ai primi passi, l’anca sbilenca per la presa laterale dell’infante. In pratica non servite a niente, almeno noi genitori serviamo a farvi. Inutili, come è inutile il latino ma con più difettivi e senza dizionario dove ogni tanto hai il culo di trovare la frase fatta che ti salvi la versione. Però, bambini, c’è un però, a me il latino è sempre piaciuto, come mi piace tutto quello che non è misurabile, direttamente spendibile, funzionale.

– Tipo?

– Tipo i sorrisi al buio, tipo la poesia.

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Le abitanti di Instagram.

La notte non dormo e allora guardo le reel. Le reel del pilates da parete. Queste fanciulle si fanno delle indagini rettali a occhio nudo per quanto sono snodate, hanno ventri incisi nell’alabastro e sostengono che sia tutto grazie a due piegamenti al muro. E noi che ci ammazzavamo in palestra le ore quando bastava ingropparsi un tramezzo. Però parliamone di questi fisici scultorei col kamasutra murales. Vite minuscole e culi altissimi. Ma non sono culi, no, sono gobbe bilaterali, non devono stare lì i glutei, ragazze, quelli sono cuscini da viaggio per il collo.

E mi spiegano i trucchetti, hanno un trucchetto per tutto le abitanti di Instagram… tipo che si infilano un paio di mutande e poi i collant e un altro paio di mutande per fermare i collant e non farli scendere. Ingegnoso, ma chiariamo una cosa: trucchetto è fermare un filo di nylon tirato con dello smalto trasparente, mettere le mutande alle calze non è un trucchetto, è una cintura di castità.

Passiamo ai capelli, i capelli sono i nuovi animali domestici di Instagram, nei video li accarezzano, li nutrono, li fanno dormire in piccole cucce setose, li rieducano perché sono stati maltrattati. Su tik tok più conoscono gli umani, più amano i capelli. Io, se mettessi tutti i prodotti che fanno vedere per la beauty routine da ricce, avrei un elmo di scipio sul capo, altro che leggerezza, sette strati di roba mi trasformerebbero la chioma in una calotta uniforme da playmobil. Prima un impacco pre-shampoo, poi lo shampoo preliminare, poi lo shampoo che viene al sodo, quello che ti prende e ti sbatte al muro, poi vai di acqua santa, poi il balsamo nutriente, poi il conditioner leave-in, poi il risciacquo acido, l’anti-elettricità, poi mettiamo l’impacco protettivo per il calore, poi ci mettiamo un paio di mutande e dopo dei collant che calziamo fino al collo per fare una rapina perché c’ho speso settecento euro per comprare tutti ‘sti prodotti e non ho più soldi per dar da mangiare ai miei figli.

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Il lungo inverno dei cazzi amari.

Era iniziato il lungo inverno dei cazzi amari, l’anno in cui si decisero di abbassare i termostati per i rincari. Mi sono guardata intorno. Ho impilato un mucchietto di scuse, venticinque devo lavorare, una trentina di altri impegni, qualche sindrome premestruale, tutto in materiale dozzinale. Ne è uscito un bel fuocherello, ma mi ha scaldato per poche ore, le scuse si trovano sempre, pessimo idrocarburo, poco tepore. Le energie che sapevo sarebbero andate sprecate, le ho divise in tre cataste e anche quelle le ho bruciate. Ci ho aggiunto il rancore, la pretesa infantile di aver sempre ragione, la voglia di litigare, perché la rabbia ci accende ma non ci può riscaldare.

Poi ho bruciato i tre fiammiferi della famosa poesia e spero che Prévert mi scusi, ma non mi servivano a guardarti il viso, perché ti so a occhi chiusi. Ho bruciato anche il metro della mia inadeguatezza, mi son detta: lavorerò di spessore se non mi sento all’altezza. Ho dato alle fiamme un bel po’ di scadenze, hanno fatto un gran fumo, si impara a non farcela e che non muore nessuno, il mondo va avanti mica poi mi ritiro, scendo e semmai ci risalgo al prossimo giro.

Ho bruciato i manuali su come crescere i figli, i bilanci, i modelli, i prontuari e i consigli, tanto l’unica regola non è scritta nei saggi ed è: abbracciali spesso, di’ una preghiera e resta lì nei paraggi. Ho bruciato anche quello che non avrò mai, scalda un sacco dar via ciò che ancora non hai, i soldi, la calma, le stanze ordinate, le calze appaiate, il mutuo infinito con tutte le rate. Ho buttato la noia, il già detto, le parole stantie, le contraddizioni, speriamo ritornino di moda i neuroni.

Con l’ultima fiamma ti ho fatto il caffè, l’hai bevuto in silenzio, spesso lasci sia lui che dica per te. Con la cenere spenta hai concimato le rose, la neve era sciolta, le viole spuntavano in terra, curiose, ho cercato l’inverno ma l’inverno non c’era. E fu il primo giorno di primavera.

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Catachristmas.

Questi sono i giorni più veloci dell’anno, i più corti e non perché faccia buio presto, sono brevi perché le giornate non durano ventiquattr’ore… tipo l’8 dicembre ne ho contate sedici di ore, diciassette a tenersi larghi. È chiaro che con un’accelerazione del genere si parta con i festeggiamenti a ottobre, altrimenti non si ammortizzerebbe lo sbattimento di addobbare l’albero e tutto il Catachristmas correlato. Ma forse dicembre non c’entra, è proprio la mia vita ad essere entrata nella fase Interstellar.

Il brutto di avere dei figli da (relativamente) giovane è che ti sembra non crescano e il tempo non passi. Ricordo perfettamente di averlo pensato per Marta e Lorenzo… quando diventeranno grandi? Corri orologio corri, portati via questa fatica, oh oh cavallo oh oh. Il brutto di avere figli da (relativamente) vecchi è che ti crescono tra le dita, li lanci in aria per il vola vola e li riprendi che sanno fare le divisioni a due cifre. Andrea Ines diventa grande così velocemente che mi aspetto arrivino i Volturi da un giorno all’altro a prendermela, perché tutto suggerisce che sia nata dall’incontro di un vampiro con un’umana.

Il paradosso dell’invecchiare è che tu dici ad alta voce “come sono vecchia”, ma non ci credi davvero, sei sempre la stessa, con quella voglia d’avventura e quella carezza della sera e tutto il resto. Non me lo merito mica che mi diate del lei, non mi merito gli ovuli che si fulminano come le lucine dei cinesi sull’albero, io mi merito i baci pazzi per strada, di notte, sono ancora la cameriera nel bar davanti all’università, non è passato un giorno. E invece… Quando vai a un funerale è bruttissimo perché qualcuno è morto, certo, ma anche perché vedi tante persone che non incontravi da una vita e pensi per tutto il tempo: minchia che vecchi e loro, lo leggi negli sguardi, pensano lo stesso di te. Il ritratto di Dorian Gray è la tela interna della nostra coscienza che ci fa sentire più giovani di quello che siamo.

Ci sono anche dei lati positivi. Fino a una certa età è tutto un paragonarsi: quella ha gli occhi più belli, quella ha il culo più alto. Poi superi i quaranta e ti basta che ti dicano che sembri più giovane. Enrica sei un cesso… ma dell’86! e tu sei felice come una pasqua. A pensarci bene non vuol dire niente “sembri più giovane”, conosco giovani davvero inguardabili. Eppure sembri più giovane è il complimento per eccellenza. Ma giovane come i giovani di oggi, tutti carini e ben depilati, con i capelli mossi in splendidi ricci naturali che idratano con maschere serali? O giovane come ero giovane io con i baffi schiariti al plutonio e la mezza coda alta a fontanella? C’è differenza.

Un altro aspetto positivo del tempo che passa è che puoi giurare “per sempre” senza sentirne la pesantezza assoluta, il per sempre di una quarantaquattrenne non è poi così compromettente, che sarà mai sto per sempre, il doppio della tua età se proprio ti dice benissimo. È un romanticismo più sfumato ecco, tipo che Dario mi ha chiesto di sposarlo già da un po’ con anello e tutto, ma temporeggiamo incerti: se mi sposa c’è la possibilità che, quando avrà l’età pensionabile, non gli diano la Minima. D’altro canto se mi sposa e muoio, può prendere la reversibilità da vedovo. A quarantaquattro anni, amare è non dover mai dire mi dispiace ma non puoi accedere al mio estratto conto retributivo.

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Non mi fate incazzare.

A casa dico un numero incredibile di volte “non fatemi incazzare”.

Lo dico da incazzata naturalmente, quindi in realtà è una minaccia inutile. Non fatemi incazzare, mi state facendo incazzare, sono in procinto di incazzarmi, je suis en train de…

Con Lorenzo mi arrabbio perché quest’anno ha avuto il cellulare ed è successo quello che era immaginabile: vivrebbe sul cellulare. Gliel’ho dato perché ce l’hanno tutti, vuoi che tuo figlio non sia come gli altri? No, voglio che sia come gli altri. Però la tua presunzione ti porta a pensare che possa essere come gli altri, ma anche l’eccezione, che sia come gli altri, ok, ma anche sorprendente. Ma perché dovrebbe essere un’eccezione? In virtù di cosa? In virtù di niente e infatti non lo è. Ho figli che come gli altri hanno imparato a camminare, leggere, scrivere e far di conto e anche a sviluppare velocemente dipendenze da un aggeggio che soggioga noi per primi. Senza eccezioni e unicità. Quindi mi incazzo, e non credo di essere un’eccezione nemmeno in questo, mi incazzo soprattutto con me stessa, perché ho ceduto, come cedono tutti. E se tu che leggi sei un’eccezione, ma beato te, beato.

La materia cedevole di cui sono fatte le nostre buone intenzioni mi pesa. Ci vuole una concentrazione per amare, una pratica costante dell’attenzione, sapendo però che troppa concentrazione soffoca e che troppa distrazione trascura. Qualche giorno fa scrivevo per lavoro, ero davanti al computer e sentivo un suono fastidioso, una specie di rumore bianco, come quando ti addormenti davanti alla tv e continui a sentire Mastrota blaterale di qualche congegno per la cervicale ma tu vuoi solo continuare con i tuoi sogni in pace. Solo che mentre scrivevo mi sono accorta che il rumore bianco era Marta che mi parlava. E allora mi incazzo di fastidio e poi mi incazzo con me stessa per essermi infastidita. La mia visione periferica mi tradisce sempre più spesso.

La questione della concentrazione si è fatta più forte con l’ultima arrivata, perché cresce veloce, esponenzialmente rispetto a Marta e Lorenzo. La sua crescita è spietata. Deve essere una contrazione temporale alla Interstellar. Se fossi più concentrata il tempo rallenterebbe, mi dico a volte, se la guardassi di più vedrei i millimetri di capelli crescere e non questo time lapse costante, questa corsa in discesa senza freni, eccitante e paurosa insieme. L’unica cosa per cui non cresce è la questione pannolino, che non abbiamo ancora eliminato, così mi ritrovo ogni giorno a farle bidet improvvisati in lavandini pubblici, con il favoloso effetto french merdicure sulle unghie. Bello questo colore! è smalto Chanel? Sì sì, Chanel, Caccà-Chanel.

È che ho tutto, davvero, compreso il terrore di non essere abbastanza.

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Se sei incerto tieni aperto

Fuggire sì ma dove? Nell’abitudine quando è tradita, quando ti porta un pomeriggio libero inatteso. Nel gusto di non darsi peso. Nel dovere che diventa facciamo poi, facciamo che il mondo può anche senza di noi. Fuggire nei capelli tra le dita. Nell’abbraccio casuale in corridoio, nelle notti di pace dove russa il vicino e il senso di colpa tace, fuggire dove se sbagli non sei sbagliata, perché sbagliamo tutti, la vita stessa è una scelta azzardata, un tentativo, tra l’altro non si capisce mai se è riuscito, nemmeno a posteriori, quando il tempo è finito.

Fuggire nelle pieghe dei divani, come bimbi nascosti dietro le mani, dove non arrivano le scadenze, non prendono le rivendicazioni, dove non c’è servizio per gli inutili pudori, dove non c’è una tacca per l’insensato, dove non c’è connessione per niente che non sia sussurrato. Fuggire in cima ai tuoi pensieri, dove c’è ossigeno e una bella vista, dove fanno eco le tue frasi buffe da saggio-poeta-filosofo-motociclista, come “se sei incerto, tieni aperto” che ripeti quando bisogna andare: se indietro non si torna, ti resta solo l’accelerare.

Fuggire nello sguardo dei vecchi, quelli che gli anni sono volati, quelli che a parlare gli occhi si fanno lucidi perché i ricordi vanno lucidati. Fuggire nel sedile del passeggero e fuori gli zombie, il tornado, stavolta è finita davvero. Ti ho scelto perché nel caso sapresti cosa fare: correre figli in spalla, colpire per non essere colpito, accogliere, curare.

Fuggire alla ricerca della pazienza, che se non si è all’altezza, se si ferisce, non è per cattiveria ma per incompetenza. Fuggire portando i semi e l’annaffiatoio, un maglione che faccia da nido e mai da prigione, portando tutto quello che siamo, il buono, il bello, il resto lo vendiamo, fuggire, fuggire, come una forsennata e, fuggendo, portare a casa la giornata. Fuggire per potersi trovare, fuggire perché è il solo modo che conosco per restare.

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Cercatori e costruttori.

Se ascolto la canzone tu senti quella chitarra, il basso che entra in un determinato modo, la raffinatezza della scrittura, oppure la banalità dell’arrangiamento, che assomiglia a questo o a quello, se ascolti la canzone ne canti il testo se lo sai, come fosse un tributo al pezzo stesso. Se ascolto la canzone io ascolto il passato, dov’ero quando l’ho sentita per la prima volta, ascolto il tempo che passa, oppure creo un precedente per puntellare questo momento in cui siamo in macchina insieme e so che mi sarà utile per dire un giorno, allora, proprio quel pomeriggio, con questa colonna sonora, eravamo felici. Se ascolto una canzone io ascolto chi ero e chi sarò. Così se guardo un film o se osservo un panorama, che per te è spazio per pascolare i pensieri, far correre gli occhi, per rintracciare quella montagna o orientarti nel mondo. Per me il panorama è per forza abitato, è una scenografia. Tu guardi la costellazione io la caduta di un desiderio.

Ho sempre pensato troppo a quello che non stava succedendo (perché era già successo, perché non sarebbe successo mai). Lascio così tanto spazio all’altrove, non mi sembra ci sia mai stata alternativa.

È che ci sono i cercatori e i costruttori. I primi vengono al mondo e sentono di aver perso qualcosa, sentono di essere incompleti, non sanno bene cosa manchi, né perché, ma quello che fanno è cercare, a volte con lo struggimento dei malati che hanno dimenticato tutto, anche il motivo della loro tristezza. E poi ci sono i costruttori, i costruttori nascono interi, non cercano, creano, affermano, hanno una presa più salda sulla vita. Cercatori e costruttori, la differenza tra il trovarsi e il realizzarsi, anche se l’obiettivo è sempre lo stesso, forse, una vita soddisfacente. Io sono una cercatrice, tu un costruttore, mia madre era una cercatrice, mio padre un costruttore. Io sono una cercatrice e quello che costruisci tu (e qui sta la buona notizia) è quello che mi manca.

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