Il lungo inverno dei cazzi amari.

Era iniziato il lungo inverno dei cazzi amari, l’anno in cui si decisero di abbassare i termostati per i rincari. Mi sono guardata intorno. Ho impilato un mucchietto di scuse, venticinque devo lavorare, una trentina di altri impegni, qualche sindrome premestruale, tutto in materiale dozzinale. Ne è uscito un bel fuocherello, ma mi ha scaldato per poche ore, le scuse si trovano sempre, pessimo idrocarburo, poco tepore. Le energie che sapevo sarebbero andate sprecate, le ho divise in tre cataste e anche quelle le ho bruciate. Ci ho aggiunto il rancore, la pretesa infantile di aver sempre ragione, la voglia di litigare, perché la rabbia ci accende ma non ci può riscaldare.

Poi ho bruciato i tre fiammiferi della famosa poesia e spero che Prévert mi scusi, ma non mi servivano a guardarti il viso, perché ti so a occhi chiusi. Ho bruciato anche il metro della mia inadeguatezza, mi son detta: lavorerò di spessore se non mi sento all’altezza. Ho dato alle fiamme un bel po’ di scadenze, hanno fatto un gran fumo, si impara a non farcela e che non muore nessuno, il mondo va avanti mica poi mi ritiro, scendo e semmai ci risalgo al prossimo giro.

Ho bruciato i manuali su come crescere i figli, i bilanci, i modelli, i prontuari e i consigli, tanto l’unica regola non è scritta nei saggi ed è: abbracciali spesso, di’ una preghiera e resta lì nei paraggi. Ho bruciato anche quello che non avrò mai, scalda un sacco dar via ciò che ancora non hai, i soldi, la calma, le stanze ordinate, le calze appaiate, il mutuo infinito con tutte le rate. Ho buttato la noia, il già detto, le parole stantie, le contraddizioni, speriamo ritornino di moda i neuroni.

Con l’ultima fiamma ti ho fatto il caffè, l’hai bevuto in silenzio, spesso lasci sia lui che dica per te. Con la cenere spenta hai concimato le rose, la neve era sciolta, le viole spuntavano in terra, curiose, ho cercato l’inverno ma l’inverno non c’era. E fu il primo giorno di primavera.

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Catachristmas.

Questi sono i giorni più veloci dell’anno, i più corti e non perché faccia buio presto, sono brevi perché le giornate non durano ventiquattr’ore… tipo l’8 dicembre ne ho contate sedici di ore, diciassette a tenersi larghi. È chiaro che con un’accelerazione del genere si parta con i festeggiamenti a ottobre, altrimenti non si ammortizzerebbe lo sbattimento di addobbare l’albero e tutto il Catachristmas correlato. Ma forse dicembre non c’entra, è proprio la mia vita ad essere entrata nella fase Interstellar.

Il brutto di avere dei figli da (relativamente) giovane è che ti sembra non crescano e il tempo non passi. Ricordo perfettamente di averlo pensato per Marta e Lorenzo… quando diventeranno grandi? Corri orologio corri, portati via questa fatica, oh oh cavallo oh oh. Il brutto di avere figli da (relativamente) vecchi è che ti crescono tra le dita, li lanci in aria per il vola vola e li riprendi che sanno fare le divisioni a due cifre. Andrea Ines diventa grande così velocemente che mi aspetto arrivino i Volturi da un giorno all’altro a prendermela, perché tutto suggerisce che sia nata dall’incontro di un vampiro con un’umana.

Il paradosso dell’invecchiare è che tu dici ad alta voce “come sono vecchia”, ma non ci credi davvero, sei sempre la stessa, con quella voglia d’avventura e quella carezza della sera e tutto il resto. Non me lo merito mica che mi diate del lei, non mi merito gli ovuli che si fulminano come le lucine dei cinesi sull’albero, io mi merito i baci pazzi per strada, di notte, sono ancora la cameriera nel bar davanti all’università, non è passato un giorno. E invece… Quando vai a un funerale è bruttissimo perché qualcuno è morto, certo, ma anche perché vedi tante persone che non incontravi da una vita e pensi per tutto il tempo: minchia che vecchi e loro, lo leggi negli sguardi, pensano lo stesso di te. Il ritratto di Dorian Gray è la tela interna della nostra coscienza che ci fa sentire più giovani di quello che siamo.

Ci sono anche dei lati positivi. Fino a una certa età è tutto un paragonarsi: quella ha gli occhi più belli, quella ha il culo più alto. Poi superi i quaranta e ti basta che ti dicano che sembri più giovane. Enrica sei un cesso… ma dell’86! e tu sei felice come una pasqua. A pensarci bene non vuol dire niente “sembri più giovane”, conosco giovani davvero inguardabili. Eppure sembri più giovane è il complimento per eccellenza. Ma giovane come i giovani di oggi, tutti carini e ben depilati, con i capelli mossi in splendidi ricci naturali che idratano con maschere serali? O giovane come ero giovane io con i baffi schiariti al plutonio e la mezza coda alta a fontanella? C’è differenza.

Un altro aspetto positivo del tempo che passa è che puoi giurare “per sempre” senza sentirne la pesantezza assoluta, il per sempre di una quarantaquattrenne non è poi così compromettente, che sarà mai sto per sempre, il doppio della tua età se proprio ti dice benissimo. È un romanticismo più sfumato ecco, tipo che Dario mi ha chiesto di sposarlo già da un po’ con anello e tutto, ma temporeggiamo incerti: se mi sposa c’è la possibilità che, quando avrà l’età pensionabile, non gli diano la Minima. D’altro canto se mi sposa e muoio, può prendere la reversibilità da vedovo. A quarantaquattro anni, amare è non dover mai dire mi dispiace ma non puoi accedere al mio estratto conto retributivo.

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Non mi fate incazzare.

A casa dico un numero incredibile di volte “non fatemi incazzare”.

Lo dico da incazzata naturalmente, quindi in realtà è una minaccia inutile. Non fatemi incazzare, mi state facendo incazzare, sono in procinto di incazzarmi, je suis en train de…

Con Lorenzo mi arrabbio perché quest’anno ha avuto il cellulare ed è successo quello che era immaginabile: vivrebbe sul cellulare. Gliel’ho dato perché ce l’hanno tutti, vuoi che tuo figlio non sia come gli altri? No, voglio che sia come gli altri. Però la tua presunzione ti porta a pensare che possa essere come gli altri, ma anche l’eccezione, che sia come gli altri, ok, ma anche sorprendente. Ma perché dovrebbe essere un’eccezione? In virtù di cosa? In virtù di niente e infatti non lo è. Ho figli che come gli altri hanno imparato a camminare, leggere, scrivere e far di conto e anche a sviluppare velocemente dipendenze da un aggeggio che soggioga noi per primi. Senza eccezioni e unicità. Quindi mi incazzo, e non credo di essere un’eccezione nemmeno in questo, mi incazzo soprattutto con me stessa, perché ho ceduto, come cedono tutti. E se tu che leggi sei un’eccezione, ma beato te, beato.

La materia cedevole di cui sono fatte le nostre buone intenzioni mi pesa. Ci vuole una concentrazione per amare, una pratica costante dell’attenzione, sapendo però che troppa concentrazione soffoca e che troppa distrazione trascura. Qualche giorno fa scrivevo per lavoro, ero davanti al computer e sentivo un suono fastidioso, una specie di rumore bianco, come quando ti addormenti davanti alla tv e continui a sentire Mastrota blaterale di qualche congegno per la cervicale ma tu vuoi solo continuare con i tuoi sogni in pace. Solo che mentre scrivevo mi sono accorta che il rumore bianco era Marta che mi parlava. E allora mi incazzo di fastidio e poi mi incazzo con me stessa per essermi infastidita. La mia visione periferica mi tradisce sempre più spesso.

La questione della concentrazione si è fatta più forte con l’ultima arrivata, perché cresce veloce, esponenzialmente rispetto a Marta e Lorenzo. La sua crescita è spietata. Deve essere una contrazione temporale alla Interstellar. Se fossi più concentrata il tempo rallenterebbe, mi dico a volte, se la guardassi di più vedrei i millimetri di capelli crescere e non questo time lapse costante, questa corsa in discesa senza freni, eccitante e paurosa insieme. L’unica cosa per cui non cresce è la questione pannolino, che non abbiamo ancora eliminato, così mi ritrovo ogni giorno a farle bidet improvvisati in lavandini pubblici, con il favoloso effetto french merdicure sulle unghie. Bello questo colore! è smalto Chanel? Sì sì, Chanel, Caccà-Chanel.

È che ho tutto, davvero, compreso il terrore di non essere abbastanza.

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Se sei incerto tieni aperto

Fuggire sì ma dove? Nell’abitudine quando è tradita, quando ti porta un pomeriggio libero inatteso. Nel gusto di non darsi peso. Nel dovere che diventa facciamo poi, facciamo che il mondo può anche senza di noi. Fuggire nei capelli tra le dita. Nell’abbraccio casuale in corridoio, nelle notti di pace dove russa il vicino e il senso di colpa tace, fuggire dove se sbagli non sei sbagliata, perché sbagliamo tutti, la vita stessa è una scelta azzardata, un tentativo, tra l’altro non si capisce mai se è riuscito, nemmeno a posteriori, quando il tempo è finito.

Fuggire nelle pieghe dei divani, come bimbi nascosti dietro le mani, dove non arrivano le scadenze, non prendono le rivendicazioni, dove non c’è servizio per gli inutili pudori, dove non c’è una tacca per l’insensato, dove non c’è connessione per niente che non sia sussurrato. Fuggire in cima ai tuoi pensieri, dove c’è ossigeno e una bella vista, dove fanno eco le tue frasi buffe da saggio-poeta-filosofo-motociclista, come “se sei incerto, tieni aperto” che ripeti quando bisogna andare: se indietro non si torna, ti resta solo l’accelerare.

Fuggire nello sguardo dei vecchi, quelli che gli anni sono volati, quelli che a parlare gli occhi si fanno lucidi perché i ricordi vanno lucidati. Fuggire nel sedile del passeggero e fuori gli zombie, il tornado, stavolta è finita davvero. Ti ho scelto perché nel caso sapresti cosa fare: correre figli in spalla, colpire per non essere colpito, accogliere, curare.

Fuggire alla ricerca della pazienza, che se non si è all’altezza, se si ferisce, non è per cattiveria ma per incompetenza. Fuggire portando i semi e l’annaffiatoio, un maglione che faccia da nido e mai da prigione, portando tutto quello che siamo, il buono, il bello, il resto lo vendiamo, fuggire, fuggire, come una forsennata e, fuggendo, portare a casa la giornata. Fuggire per potersi trovare, fuggire perché è il solo modo che conosco per restare.

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Cercatori e costruttori.

Se ascolto la canzone tu senti quella chitarra, il basso che entra in un determinato modo, la raffinatezza della scrittura, oppure la banalità dell’arrangiamento, che assomiglia a questo o a quello, se ascolti la canzone ne canti il testo se lo sai, come fosse un tributo al pezzo stesso. Se ascolto la canzone io ascolto il passato, dov’ero quando l’ho sentita per la prima volta, ascolto il tempo che passa, oppure creo un precedente per puntellare questo momento in cui siamo in macchina insieme e so che mi sarà utile per dire un giorno, allora, proprio quel pomeriggio, con questa colonna sonora, eravamo felici. Se ascolto una canzone io ascolto chi ero e chi sarò. Così se guardo un film o se osservo un panorama, che per te è spazio per pascolare i pensieri, far correre gli occhi, per rintracciare quella montagna o orientarti nel mondo. Per me il panorama è per forza abitato, è una scenografia. Tu guardi la costellazione io la caduta di un desiderio.

Ho sempre pensato troppo a quello che non stava succedendo (perché era già successo, perché non sarebbe successo mai). Lascio così tanto spazio all’altrove, non mi sembra ci sia mai stata alternativa.

È che ci sono i cercatori e i costruttori. I primi vengono al mondo e sentono di aver perso qualcosa, sentono di essere incompleti, non sanno bene cosa manchi, né perché, ma quello che fanno è cercare, a volte con lo struggimento dei malati che hanno dimenticato tutto, anche il motivo della loro tristezza. E poi ci sono i costruttori, i costruttori nascono interi, non cercano, creano, affermano, hanno una presa più salda sulla vita. Cercatori e costruttori, la differenza tra il trovarsi e il realizzarsi, anche se l’obiettivo è sempre lo stesso, forse, una vita soddisfacente. Io sono una cercatrice, tu un costruttore, mia madre era una cercatrice, mio padre un costruttore. Io sono una cercatrice e quello che costruisci tu (e qui sta la buona notizia) è quello che mi manca.

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Ricordi di scuola estemporanei raccolti il primo ottobre 2022.

Una volta un mio compagno delle elementari ha scritto merda con la merda, cioè ha usato la sua stessa merda per scrivere merda, un meta murales sopra la turca. Ho visto cose turche credo che sia un detto nato da lì. Si chiamava Francesco.

Avevamo l’obbligo del grembiule e il mio era sempre o troppo piccolo o troppo grande, come la bicicletta. Mai avuto una bici della misura corretta. L’unico periodo in cui il grembiule era della taglia giusta probabilmente cadeva in estate, l’unico periodo in cui la bicicletta era della taglia giusta cadeva in inverno.

Non si giudicavano le maestre, non ti erano antipatiche o simpatiche, erano come le mamme, potevi litigarci, potevi andarci poco d’accordo ma non le mettevi mica in discussione.

I quaderni quando finivano ti sentivi orgoglioso. Lo volevi far sapere a tutti che avevi finito il quaderno e ne potevi iniziare un altro, la prima pagina del nuovo quaderno era una festa.

Ogni tanto saltavi le pagine per errore e allora le dovevi incollare, la colla si metteva sui quattro lati e a croce, non c’era altro modo.

I capelli lunghi si incastravano nelle viti dello schienale delle sedie, ne restavano ciocche intere lì attaccate. Quando sentivi tirare ogni volta ti giravi incavolata verso il compagno dietro, perché pensavi fosse lui a tirare.

C’erano dondolatori espertissimi che alla dondolata avanti e indietro preferivano i 360° su una sola zampa della sedia. Le maestre iniziavano la loro campagna antidondolamento in prima per non smetterla fino alla quinta elementare.

Ci veniva anche detto di mettere la testa sul banco e di dormire, come i cavalli.

Si facevano i cartelloni, i cartelloni partivano bene e finivano male, con le lettere tutte schiacciate perché ti mancava lo spazio. Era uno strazio per me guardarli lì appesi, tutti stortignaccoli, non vedevo l’ora che cambiasse argomento e si ricominciasse con un cartellone nuovo.

Avevamo un ominide in meno, l’ergaster, mai sentito l’ergaster fino a quando non è andato a scuola Lorenzo.

Non c’erano gli amici del dieci. Il dieci non aveva amici ai miei tempi, il dieci era uno stronzo solitario.

La nostra bidella, perché si diceva bidella, era dolce, si chiamava Mariuccia e ci dava le carezze sulla testa, ieri ho fatto il conto, Mariuccia non è sicuramente più dei nostri. Speriamo che tutte quelle teste sfiorate ogni tanto la pensino.

I banchi cambiavano spesso posizione, a ferro di cavallo, a isola, a file di due o tre banchi. Come se la collocazione nello spazio potesse migliorare la nostra resa, feng shui elementare. Se rivolgiamo Francesco a nord magari non farà più i murales di merda… doveva essere questa la speranza.

La frase che ripetevamo di più era Lo dico alla maestra. Qualcuno ti faceva incazzare e tu “lo dico alla maestra”. I migliori erano i “ce lo dico alla maestra”. Qualsiasi cosa la dicevi alla maestra e tutti noi ignoravamo quanto alla maestra non fregasse un cazzo di quello che dovevamo dirle. E così è era e sarà, nei secoli dei secoli.

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Pensavo fosse tristezza e invece era settembre.

A settembre non dormo, è la prassi. Anzi no, peggio, dormo e poi mi sveglio, alle tre nel sottosopra e nel mio sottosopra c’è la tristezza, ci sono solo scadenze, bollette, c’è pure da votare, c’è la paura di non esserci, di non arrivare, di non farcela, di non sorridere abbastanza, poi ci sono errori di ogni tipo, potevo, dovevo a lettere cubitali, una scritta “sei in ritardo” al neon, ci sono incomprensioni e lunghi discorsi che mi passano davanti nel buio come in un gobbo dei conduttori in tv e li recito a mente, lunghi monologhi per chi credo mi abbia mancato di rispetto o lunghe scuse che non chiederò mai. Visualizzo disgrazie così disgraziate che devo scuotere forte la testa per cancellare le tracce dello scempio mentale. Ci sono le storie che vorrei scrivere ma sono troppo grandi, perché non le ho vissute e quindi scelgo storie più piccole perché mi sembra meno presuntuoso. Questo lo conosco, lo posso raccontare, non sto rubando il dolore o la felicità di un altro, non sto barando, è roba mia, può piacere o meno, ma è roba mia. Come il sottosopra.

Nel sottosopra ci sono i demoni, i diavoli. Diavolo è greco, diaballo, separare, dividere e in effetti l’inferno arriva quando tutto dentro va in frantumi. E quando tutto è frantumato e disarmonico alla fine hai bisogno di uno schieramento, di qualcosa che ti tenga insieme, che ti dica forse non sarai buono, ma sei giusto. Ma gli schieramenti non hanno mai ragione se non tengono conto delle singole persone. Se la battaglia non ce l’hai dentro non fai la guerra fuori, se sei in pace non hai bisogno di nemici. L’inferno è vivere nella contraddizione e una piccola forma di contraddizione la viviamo tutti. Insegnare ai nostri figli cose che noi non abbiamo la minima intenzione di fare, tipo fare attenzione o staccare. Staccaaaaa urliamo ai ragazzini al computer e noi non riusciamo a staccare, mai, neanche di notte, da orizzontali, a fare capriole, tra il su e il giù. La contraddizione di invocare la rivoluzione senza sapere cosa rivoluzionare.

Allora vengo da te, da te che non dormi mai e ti dico che sono triste e tu mi dici che va tutto bene. Arrenditi. Pensa a quanto ti sentiresti stupida a ritornare con la mente a stanotte, se le cose si mettessero improvvisamente male. Perché le cose purtroppo hanno la tendenza a peggiorare, è fisica, non è pessimismo, andiamo verso il disordine non il contrario, a prescindere dai programmi e dalle previsioni e dalle intenzioni. Ecco io non me lo potrei perdonare di essermi lamentato quando invece ero solo fortunato. E hai ragione. Sei la trottola d’argento da far girare sul tavolo, le bollicine d’aria da seguire per tornare in superficie. Mi sdraio di nuovo, la tristezza è come una bambina capricciosa, a volte bisognerebbe solo abbracciarla, asciugarle le lacrime e darle la buonanotte. Quel poco di notte che resta ancora da dormire.

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Quarantaquattro martedì.

Ho avuto la fortuna di trascorrere l’estate con tanti amici e tanti figli di amici. L’intera tribù dei figli ha imparato a tuffarsi di testa, si sono guardati, emulati, incitati, presi in giro. Mi perseguita l’idea di quanto abbiano perso in questi anni, separati e segregati, quando le cose più importanti i bambini le imparano gli uni dagli altri. La tribù dei figli ha il terrore di annoiarsi, la noia è la grande nemica dell’infanzia, la tribù dei grandi invece la brama, sogna il vuoto totale in cui non c’è talmente niente da fare che il da fare te lo devi inventare. Dateci la vostra noia e vi alzeremo il mondo, vorremmo dire, ma non è vero, potendo non rialzeremo manco il culo figurati il mondo.

Il mare mi suggerisce classificazioni. Ci sono i neonati, splendidi vampiri sberluccichini, li vedi in spiaggia, tutti incremati, con i loro corpi perfetti che ti fan venir voglia di fare altri corpi perfetti. E poi ci sono i neogenitori, degli ottusi zombie che finiscono per litigare e mangiarsi il cervello a vicenda. Madri e padri ingobbiti che fanno molti più gesti del necessario, completamente rincitrulliti e rallentati dalla carenza di sonno. Vampiri e zombie, poi passa. Non è l’unica suddivisione che ho teorizzato, anche le bambine possono distinguersi in due tipi che a confronto Jung puppa: quelle che fanno la ruota e quelle che no. Io, manco a dirlo, ero una quella che no. Invidiavo l’eccezionale facilità a volteggiare di quelle che sì, mentre a me usciva un saltello pesante da orango. Non che mi mancasse la fantasia del volo, ma mi ci è sempre voluta una buona dose di realtà per sognare, una buona dose di terra terra. Marta è una bambina che non sa fare la ruota, ma che non si vergogna a provarci, ne sono molto orgogliosa.

Poi c’è l’amore. Del passato ricordo grandi abbuffate e grandi digiuni, a differenza della taglia del mio corpo che è la stessa da quando ho diciassette anni, il cuore si è allargato e stretto tante volte. Ora è della dimensione giusta. Ho la sensazione di essere entrata nella fase del mantenimento, dicono che sia la più difficile nelle diete, chissà nei sentimenti.

Forse credevo di essere senza pace e invece ero solo acerba. Quando sei giovane ti puoi concedere il lusso dell’insoddisfazione, perché pensi ci sia tempo. E invece non è così perché la vita è come una vacanza, quando ti ci ritrovi un po’, hai preso i ritmi, sei a tuo agio, è già ora di andare.

Penso a mia madre che, se è da qualche parte, è proprio al mare. Aveva un rapporto unico con il sole, lo ricercava, gli si esponeva e poi, la sera, faceva la prova nella piega del braccio, quella che si crea vicino al gomito, la sua era sempre molto più nera della mia. Il culto del sole non era estetico, non c’entrava con l’abbronzatura, è che meritava di essere una donna di Hopper, seduta sul letto con le gambe piegate, la luce ovunque nella stanza, lo sguardo triste all’orizzonte. Cercava il sole perché la sua anima era acerba o forse solo irrimediabilmente giovane.

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Si salvi chi può.

Di fronte all’ennesimo fatto di cronaca c’è sempre qualcuno che commenta “ma cosa succede alle persone, stanno tutte impazzendo”. Ecco, io mi stupisco che la gente non impazzisca di più. Talvolta l’esperienza del vivere mi sembra così terrorizzante che mi aspetterei di vedere ogni giorno qualcuno correre per strada urlando: “Si salvi chi può!”, “Da cosa?”, “Da tutto!”. Dalla retorica e dall’antiretorica, da chi pensa che giudizio critico significhi criticare, dalla serietà, dalla superficialità, dalla malattia, dai sani.

Si salvi chi può dalla rabbia, dai soldi, dalla povertà. Si salvi chi può dal troppo, dal poco e dal medio, dal neutro, dal niente di che. Nessuno vuole arrivare a pensare in punto di morte “mi sa che l’ho scampata!”, “Che cosa hai scampato?”, “La vita”. Si salvi chi può dal benessere, che crea malesseri sempre nuovi, nuove malattie autoimmuni. Una malattia autoimmune è una disfunzione che induce l’organismo ad attaccare i propri tessuti, in pratica è autosabotaggio, lo stesso che riguarda le relazioni anche quando sembrano funzionare, è che non ci lasciamo mai stare.

Dall’infelicità, che è diversa dalla tristezza, la tristezza crea anticorpi per ricondurti alla guarigione, l’infelicità è appiccicosa, endemica e a volte culturale, forse posturale. Da dove vengo io è considerata elegante, mentre la gioia è scomposta e vagamente cialtrona. Si salvi chi può dal perché a me? Dal perché non a me? Si salvi chi può da questi tempi neri, sempre che ne siano esistiti di altri colori, abbiamo riabilitato il Medioevo per non sentirci troppo in colpa nel riviverlo daccapo. Si salvi chi può dall’invidia provata e da quella subita, dai vecchi rancori, da quelli che, tipo il lievito madre, ogni giorno rinnovi, dalla smania di avere ragione, dal non saper gestire le emozioni, dal gestirle con fermezza militare, dal baratro, dal disastro, dal mostro. Dalla vecchiaia, che non va quasi mai come dovrebbe e bello sarebbe tenersi il meglio per la fine, come l’ultimo boccone del piatto preferito, come il bambino che mangia il dolce e ha ancora voglia di leccarsi il dito.

Si salvi chi può dalla solitudine e dalla contraddizione, si salvi chi può da chi non sa fare e allora fa la morale. Si salvi chi può dall’assenza d’amore o dalle forme deteriori dell’amore, per cui bisognerebbe trovare parole diverse. Se è troppo, se è tossico, se è a senso unico, se fa male, non è amore. L’amore ripara, ripara le crepe, le ossa rotte e ripara anche nell’altro senso, dal brutto, dal pericolo, dalla minaccia dell’orrore. L’amore non è il sole, è l’ombra da cui godersi il sole, non brucia, non scotta, non tramonta e, a differenza di noi, non muore.

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Sopravvissute.

Usavamo il Cristal soleil. Il cristal soleil era un mix d’olio, benzene, acqua e parabeni. Parabene… con quel nome lì come potevamo immaginare che facesse male? Lo stronzio sì, viene per nuocere, ma il parabene come può essere dannoso? Subdolene ecco un nome corretto… questo prodotto è pieno di subdolene, mh io non mi fiderei. Questa crema è fatta col criptomerdene. Allora no, non la compro. Ma parabene, quello è buono per forza. Barbablu è un nome da cattivo, Babbo Natale da buono, cioè non ti aspetti di certo che mangi i bambini trascinandoli dentro i camini come IT negli scarichi d’acqua durante i temporali. E invece no i parabeni sono cattivi. Ora lo sappiamo.

A noi un po’ di benzene piaceva, c’eravamo abituati, d’altronde al mare tornavamo a casa coi costumi pieni di catrame, era considerato normale, nuotavamo come cormorani inzuppati di petrolio nel Golfo Persico, negli anni Ottanta per farci uscire dall’acqua non c’erano le nostre madri con gli accappatoi, a riva c’erano i volontari del WWF.

Ogni tanto capita che una mia coetanea si lamenti con me: “guarda i miei capelli hanno le doppie punte!”, ma per dove siamo cresciute ringrazia che non abbiano gli occhi e le spire!

La depilazione dall’estetista non era consentita prima di una certa età, perché secondo mia madre i peli a toglierli si incattivivano. Ogni volta che mi avvicinavo con una pinzetta a un pelo potevo sentirlo con la voce di Clint Eastwood “è meglio che prendi nota: io sono cattivo, incazzato e stanco. Sono uno che mangia filo spinato, piscia napalm e riesce a mettere una palla in culo ad una pulce a 200 metri, per cui va’ a rompere il cazzo a qualcun altro e levati dalle scatole”. Miii ma stai calmo.

Non so perché a toglierli quelli si incazzavano di brutto ma a schiarirli invece si prendevano bene, fatto sta che schiarire era consentito, così schiarivo tutto, baffi e gambe. Usavo la crema al plutonio Oxy. Non lo sapevo ma stavo inventando lo shatush ai polpacci, le mie compagne di classe avevano i peli che ricrescevano io avevo la ricrescita ai peli. Invece prima di andare di lametta nella zona bikini ti conveniva consultare il libretto delle vaccinazioni, perché la lametta in questione era come minimo di terza mano… ci si era fatto la barba papà, ci si era fatta le ascelle la sorella più grande e la nonna c’aveva dato una scorciata alla moquette in salotto. Se per caso usciva una goccia di sangue il migliore disinfettante era il profumo di nonno. Il profumo del nonno era come la coppa del nonno, uno solo per tutti i nonni: il pino silvestre. La confezione a forma di pigna tradiva la vera funzione di quel miscuglio che era evidentemente impregnante per legno.

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