Newton abbiamo un problema.

Mi affascina il cambiamento dei modelli estetici, io vengo da tempi in cui per entrare nei canoni classici di bellezza dovevi essere sottile come un A4, per quanto magre eravamo comunque fornite di un eccesso di organi interni. Le ragazze di adesso, quelle che vanno forte su IG, hanno questi culi così tondi, pieni, che ti verrebbe voglia di parcheggiarci la bici, tra chiappa e chiappa. Io non so come facciano a ottenere quel livello di panettosità Bauliana e anche di antigravità alla Jennifer Lopez… poi parliamone di Jennifer che a cinquantatré anni ha un sedere in grado di battere ancora tutti i guinness dei primati, io l’ammiro J LO, pur sapendo che Lo sta per Lordosi. Noi, nel nostro piccolo, del panettone avevamo solo buchi. Naturalmente da giovane mi detestavo cortesemente, avevo mens scema in corpore sano, ma poi il tempo fa il suo, mi piaccio di più ora anche se un po’ di cedimento strutturale comincio a vederlo. Allora ti dicono di fare sport, fare sport fa bene e tu fai sport. Corri. Solo chi corre sostiene che correre faccia bene, per tutti gli altri correre è peggio del crack, infiamma e fa venire la cellulite, ti spappola ginocchia e schiena, ti rende inviso ai passanti. Allora molli la corsa e ti dai al workout. Va tutto bene, fino a quando ti metti a fare i plank con una maglietta larga e scollata e hai la malaugurata idea di guardare in basso. Dopo i quarant’anni quello che ti aspetta se guardi in basso mentre fai i plank sui gomiti con una maglietta scollata e magari pure senza reggiseno, ecco quello che ti aspetta è la faccia di Newton che ti saluta con il ghigno di IT e ti insegna la gravità mammaria in tutta la sua potenza attrattiva verso il nucleo terrestre. Dove, tra l’altro, anche la tua autostima fisica si sta andando a inabissare. Plank è semplicemente il rumore dell’epidermide che si sfracella a terra, in un tonfo sordo.

Nella mia famiglia comunque sono l’unica a cui piace sudare, faticare, gli altri sono virtuosi, sono tecnici, a loro piace il tennis, soprattutto da salotto. Il tennis a me mette ansia, credo sia colpa dei raccattapalle, se pensate di essere gente sotto pressione osservate bene un raccattapalle in una grande partita e capirete che lui è più schizzato di voi, garantito al cento per cento. Lorenzo, come tutti i giovani appassionati di questo nobile sport, adora Sinner. Mi sembra davvero un ottimo giocatore, ma ogni volta che ascolto una sua intervista mi scappa da ridere, Sinner è il Keenu Reeves del tennis, tutti e due stanno attraversando un processo di canonizzazione. Fra’ Reeves è modesto, prende la metro, cede il posto alle gravide, lui è l’eletto e la stampa ci sguazza, San Sinner in compenso non manca di sottolineare dopo ogni partita che non trapianta fegati e non ha trovato la cura per il cancro, ma Jannik, tranquillo, nessuno di noi si aspetta da te un doppio con Madre Teresa. Piuttosto fai il miracolo e fammi capire come minchia conteggiate i punteggi, perché io dopo cinque anni di tornei non c’ho ancora capito un emerito plank.

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La fase letamaia.

Ho fatto due figli in quel magico quinquennio che sono i trenta-trentacinque anni, prima di essere considerata puerpera attempata, quando sei abbastanza grande per avere un lavoro più o meno stabile, abbastanza giovane perché non ti chiedano se hai lo sconto pensionati quando vai a comprare i pannolini. L’ottimale. Neanche per sogno, amici, non era affatto l’età ottimale, ma questo lo scopri solo tempo dopo, perché quello che non sai a trenta/trentacinque anni è che nel tuo futuro ti aspetta l’imponderabile ovvero che la preadolescenza dei tuoi neonati coincida con la tua premenopausa e, ancora peggio, la loro adolescenza con la tua menopausa. Cioè ci sarà un momento lungo anni in cui la tua casa sarà l’occhio strabico di un ciclone umorale devastante, uno sbatter di porte, uno sbatter di palle, di silenzi punitivi e vittimismi, di un che vuoi da me? Che voglio da te? Non parlarmi così. Non rispondermi. Rispondimi quando ti parlo! Di non mi capisci, nessuno capisce, perché dio delle città e dell’immensità non mi capisci? Di corpi che cambiano, peli che crescono, lacrime che ingorgano, groppi in gola che non sgroppano. Quel periodo è per me quasi arrivato, ne colgo i prodromi.

I miei figli grandi si menano, lo hanno sempre fatto, ma io vorrei che si menassero silenziosamente, invece alternano urla e morsi, pugni e qualche gridolino querulo. Hai creato un figlio indecente mi ha detto l’altro giorno Marta, dopo che Lorenzo l’ha calpestata scendendo dal divano. Ci sarebbe da dire sul perché Marta giacesse per terra a pelle d’orso, ma che vuoi dire? Puoi solo bestemmiare. Loro strisciano, non camminano, nuotano a rana sul pavimento e ogni tanto ti tendono una mano, aiutami… rantolano per farsi issare in posizione eretta, uscendo da quelle lande d’inedia dove pascolano e indugiano tornati da scuola. Il loro corpo slitta, si siedono come Mork a culo ritto e testa negli anfratti tra cuscino e cuscino o come un vj di MTV degli anni novanta, una gamba qua, una gamba là, rannicchiati in spazi grandi o spaparanzati in spazi piccoli.  Hanno sempre caldo, fosse per loro adotterebbero lo stile Mauro Corona, smanicati a gennaio, hanno sempre caldo tranne quando si riappropriano del loro posto sul divano e si contendono il plaid che staziona lì per me che invece ho sempre freddo. A quel punto la loro temperatura interna si assesta sulle coordinate di Helsinki, devono imbozzolarsi con urgenza o rischiano l’assideramento, devono rimboccarsi la coperta nei calzini e nel girocollo della maglia. E la coperta è sempre troppo corta, come la mia pazienza. Mi rendo conto che non sono solo loro, sono pure io che ho una soglia della sopportazione alta due mele o poco più, io che millanto assurde punizioni che poi non ho la forza, la voglia e la fantasia di applicare, io che sono umorale e scontrosa. E non mi butto per terra solo perché da quella posizione mi renderei conto di quanta merda si accumula sotto al divano e sarei obbligata a sgomberare quel centro sociale di polvere per acari, colle pritt (sono tutte lì), scotch (nb non ricomprarne altri rotoli per dio!), briciole e squadrette, che cuba come un bilocale. 

Andrea Ines partecipa a questo delirio, come una piccola mini-me, sgrida tutti a turno, fratelli e genitori, ma poi ci rassicura che vorrebbe cagarci di baci, dice proprio così Ti voglio cagare di baci. E meno male che c’è lei a ricordarci che anche in questa fase letamaia, in modo buffo e imprevedibile, tra un grugnito e l’altro, cresce l’amor.

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Ma perché nessuno dice trentatrè?

Sono giorni di piccoli acciacchi, persino io che non mi ammalo davvero mai ho la laringite, palleggiata prima nelle gole di tutto il resto della famiglia. Così meditavo che con tre figli conto ormai di aver collezionato almeno il doppio dei pediatri, alcuni cambiati per anzianità (loro), altri per traslochi (nostri).

Il mio preferito era il primo pediatra di Andrea Ines, il temutissimo Dottor F., colui che tollerava e rispettava i piccoli ma disprezzava i grandi. I genitori erano ai suoi occhi una categoria di debosciati inetti che reputava un unico bolo melmoso senza volontà e nerbo, gente incapace di trovarsi il culo con le mani di cui comunque non era dotata in quanto bolo. Non aveva una segretaria probabilmente per prendersi il gusto di mandarti affanculo prima al telefono o poi di persona. Brusco e spiccio, ti giudicava fin dal primo momento, quando dicevi come si chiamava tuo figlio che aveva sicuramente un nome troppo complesso, irritante, frutto dei bizantinismi di questo tempo corrotto e naturalmente della scemenza frivola del bolo. Quando alla fine giungevi in studio, la sua reazione poteva essere solo di due tipi: demente, perché cazzo sei venuto? Oppure: demente, perché cazzo non sei venuto prima? Non c’era verso di beccare la tempistica corretta o eri demente perché ti eri preoccupato inutilmente facendogli perdere prezioso tempo (tempo che avrebbe potuto impiegare meglio a maltrattare qualche altro tuo simile con il Qi di un’oloturia) o eri demente perché non ti eri preoccupato abbastanza o non avevi riconosciuto sintomi vari. Demente iperprotettivo o demente sconsiderato. Ma lui odiava più i dementi iperprotettivi, era chiaro. Purtroppo il dottor F lo abbiamo avuto per pochissimo tempo, perché poi è andato in pensione, ora è il ghostwriter di Crepet.

Dottor F non aveva la segretaria ma tutti gli altri sì. Elle rispondono al numero fisso dello studio dalle sette e cinque alle sette e un quarto e dalle quattordici e quarantatrè alle quattordici e cinquantadue, solo nei prefestivi. Hanno questo tono tra lo scazzato e lo scocciato come se stessi proponendo loro una tariffa agevolata per acquistare un purificatore d’acqua: sono la mamma di Marta… no guardi non mi interessa, buongiorno e attaccano. Tu riprovi e spieghi, ma tergiversano, nascondendosi dietro quella magica parola-scudo: IL DOTTORE. Il DOTTORE è fuori per visite, IL DOTTORE oggi non riceve SIGNORA, chiami domani. Se il Dottore è la parola scudo, Signora è la parola spada, la segretaria ti trafigge con molti signora. Uno dei vari pediatri di passaggio negli anni io non sono mai riuscita a incontrarlo. “Signora, il DOTTORE non esiste, io sono solo una mitomane che ha inserito il suo numero nei contatti on line di un medico dell’ASL per divertirmi a trattar male la gente”.

La Dottoressa D. gentile era gentile, aveva una sola grande fissazione, ovvero l’aspirazione del muco. Era proprio il suo cavallo di battaglia. Tu entravi con il tuo primogenito e lei dalla porta: ma glielo aspirate il muco? Ma da dove dottoressa D.???? da dove glielo devo aspirare ‘sto muco che sono venuta perché il bambino ha mal di pancia? Oggi, dodici anni dopo, guardo Lorenzo che carica la lavastoviglie come se giocasse a dadi coi bicchieri e sono certa di aver esagerato con le aspirazioni, gli ho portato via una bella manciata di neuroni. Tra l’altro è un’operazione che ho sempre fatto io perché a suo padre faceva schifo, invece nel mio cv alla voce hobby ci ho fatto aggiungere: suggere narici.

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Potrei dare la colpa a gennaio.

Potrei dare colpa a gennaio se ho questo umore di merda. Gennaio mi ha fatto sempre schifo, forse perché tutti i miei anni si aprono con quel “cara Vergine, non ti mentirò, faticherai ancora”. Io e il mio oroscopo festeggiamo 45 anni di sincerità astrologiche, di piccoli sforzi e poi la svolta. Nel mio caso c’è da dire che La Vergine è costituzionalmente inadatta alla felicità, ma non lo sa ed è felice lo stesso, però un po’ di incoraggiamento non guasterebbe. È che l’umore non è razionale, va dove vuole indipendentemente da quel che vivi, sono piuttosto brava a tenerlo a bada, ma non a gennaio, il mese di trentun lunedì.   

Potrei dare colpa alle iscrizioni alle superiori di Lorenzo che, guarda caso si fanno a gennaio e che almeno segnano la chiusura ermetica degli open day. Esistono open day per ogni scuola di ordine e grado, dal nido ai master. Gli open day ti servono a scegliere il futuro dei tuoi figli, io non so scegliere manco i meloni, figurarsi le scuole, batto sul culetto della professoressa di inglese per capire se è matura e preparata? Non mi fido della mia prima impressione e nemmeno di tutta questa esposizione di eccellenza. Come sempre abbiamo scelto la scuola più vicina e via.

Potrei dare colpa alla burocrazia dei moduli da compilare, sono nemica giurata dei moduli, metto l’indirizzo al posto della provincia, il numero civico mai dopo n°, mi fa incazzare che ci sia un’unghia di spazio per il codice fiscale, parti grosso e largo e poi le ultime lettere sono sovrapposte, un codice che è stato tamponato dalla parola dopo e s’è accartocciato. Naturalmente il mio nome cognome al posto di quello dei miei figli. Ho lo stesso rapporto con le luci ingresso-sala, quattro pulsanti che sbaglio sistematicamente, le ha studiate l’inventore del Simon, quel gioco odioso degli anni Ottanta sulla sequenza colori luminosi-suoni, piii peeee pooooo brrrrr (brrrr è il segno che hai sbagliato tutto, che sei un coglione).  

Potrei dare colpa alla maternità in genere. Ho letto uno studio secondo cui i figli trattano otto volte peggio le madri rispetto agli altri parenti, amici o passanti. Otto volte! Che già fa ridere perché non si capisce quale sia la scala per estrapolare un dato del genere, però temo sia vero che diamo il peggio con quelli che ci amano di più. Lo sapevo che non dovevo concedere troppa confidenza a quei batuffoletti, che gli dai una tetta e si prendono tutto, adesso temo sia troppo tardi pretendere il lei o la solitudine in bagno.

Potrei dare colpa ai miei capelli ormai completamente transiti al grigio, al fatto che le ore non passano mai ma gli anni corrono, potrei dare la colpa al mio dismorfismo temporale che mi fa pensare sempre di avere diciott’anni (e infatti prendo ora la patente e quella P di principiante oltre che sull’auto vorrei appendermela pure sulle chiappe, tanto è una P esistenziale).

Potrei dare colpa a chiunque e invece darò la colpa solo a te, signora che accompagni sullo scuolabus  i bambini della materna che frequenta la mia ultimogenita. Tu che venerdì scorso, guando si sono aperte le porte del pulmino, indicandomi alla mia piccola che mi tratta otto volte peggio del resto del mondo ma comunque meglio di te, hai detto guardandomi negli occhi:

“Andrea Ines,

sbrigati,

c’è

la

NONNA”.

Ecco, amica mia, se c’ho sto umore di merda è solo colpa tua. Te possino Piiii peee poooo brrrr.

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venti ventiquattro

Sul finire del 2023 ho fatto la mia prima lezione di guida e mentre pigiavo ma non troppo, sterzavo ma non troppo, acceleravo ma non troppo ho avuto un pensiero d’amore universale. Umanità devo chiederti perdono, mi sono detta, ti ho sottovalutata, ho talvolta invocato l’estinzione, ho spesso ritenuto che fossi un tantinello cogliona. Ma la maggior parte di te, Umanità, sa bene o male sterzare e schiacciare la frizione e poi cambiare prestando attenzione a tutti quei pedoni presuntuosi. Insomma Umanità patentata io ti ho infamata, me ne dolgo.

Dopo lezione ho fatto un primo giro di prova in un parcheggio rischiando di azzoppare un cane, il mio aspetto contrito e l’espressione seriosa ha spinto Dario a ricordarmi che comunque non stavo imparando a soffiare il vetro di Murano. Al fine ha decretato: amore mio, anche il peggiore dei Minchia ha la patente. Perdonalo Umanità, non sa quel che dice.

Imparare cose nuove mi sembra sempre un buon augurio per un anno che inizia.

Oltre a schiacciare la frizione quando cambio quest’anno voglio ricordarmi altre cose sparse, perché tendo a dimenticare. Per esempio:

Essere curiosi dell’altro è la prima forma d’amore, di certo la più gentile.

I grandi si devono occupare dei più piccoli e non il contrario. C’è un momento in cui i grandi diventeranno vecchi e quindi, in qualche modo, di nuovo piccoli e sarà il loro turno per essere curati e così via nei secoli dei secoli, se i secoli decidessero finalmente di seguire un andamento logico.

Ci vogliono le piccole cose, ma ci vogliono anche le grandissime, le grandissime passioni, le giganti voragini e le infinite gioie. Ed è sempre questione d’amore. Nulla ha quel potenziale imponderabile, nemmeno la morte.

Stare tutti interi dentro i confini di una vita sola è complicato. Il tempo è fatto per essere riempito tutto, bisognerebbe smettere di pensare che il grosso venga deciso entro i trent’anni: amore, lavoro, passioni, figli. Non esiste una grande corsa iniziale per aggiudicarsi il proprio posto nel mondo e poi rendita e inerzia fino alla fine. Si possono vivere più vite, si può cambiare, è lecito, cambiano i desideri, per questo non bisogna crederci troppo nei desideri.

Crederci, dedicarsi, ma non forzare. Soprattutto non forzare i tempi, i sentimenti, la realtà.

Prima di stare insieme dovremmo leggerci i rispettivi diritti: hai il diritto di rimanere. Qualsiasi cosa dirai o farai d’ora in avanti non verrà usata contro di te. Perché questo è amarsi, non cadere nella tentazione della prevaricazione.

Non abusare della memoria e non affidarsi troppo ai ricordi. I ricordi devono venire a cercarti e non il contrario, i ricordi sono come quei maglioni che, se indossi troppo, finiscono per perdere il rassicurante profumo di chi li portava, e prendere solo il tuo.

Non esiste troppo buono. Nessuno è troppo buono. A meno che iniziamo a sanguinare dalle stigmate non siamo mai troppo buoni e la gente non ne approfitta, se qualcuno approfitta di noi forse è perché siamo ingenui o forse il nostro rapporto è sbilanciato o forse l’altro è troppo stronzo. Più probabilmente le tre cose insieme. Essere buoni e basta è un ottimo investimento, solo che è complicato perché è una scelta, quasi mai una scelta istintiva.

L’altro giorno ho ascoltato il podcast di Baricco. A un certo punto confessa di essere stato uno stronzo, una sorta di stronzo redento, ma pur sempre uno stronzo. Racconta di aver vissuto vent’anni di grandi odi e grandi amori, vent’anni di guerra. Nella guerra i soldati non sono belle persone, spiega, fanno cose tremende, ma la guerra è guerra. Poi Baricco si ferma e aggiunge: tornassi indietro preferirei vent’anni di dolcezza? Certo che sì, ma è andata così.

Auguro a tutti che vada cosà, almeno vent’anni di dolcezza e poi ancora vent’anni e poi ancora vent’anni, così nei secoli dei secoli, se i secoli decidessero di seguire finalmente un andamento logico.

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Il mistero della Motorizzazione.

Ho preso il foglio rosa. Questo vuol dire che sono andata in motorizzazione e ho sostenuto un esame a quiz che mi ha dato accesso alle lezioni di guida. Il buffo è che in verità non ho mai avuto bisogno della patente fino a quando sono dovuta andare in motorizzazione per prendere il foglio rosa (e qui entriamo nella trama di Tenet quindi abbandonerei il colpo o mi esce il sangue dal naso). Basta dire che la motorizzazione è il punto più lontano da ogni luogo, è ai confini dell’impero, al largo dei bastioni di Orione, nessun mezzo pubblico ci arriva, la motorizzazione secondo me si sposta verso il largo, quando l’ho lasciata mi è sembrata più lontana rispetto a quando l’ho trovata, non mi sorprenderebbe che fosse montata su ruote.

Comunque ero la più vecchia del mondo, ero più vecchia anche del vecchio usciere, ero più vecchia dei genitori che accompagnavano i figli diciottenni a dare l’esame, ero più vecchia del vecchio che verificava il riconoscimento facciale, ero così vecchia che il riconoscimento facciale mi ha proposto un filtro antirughe. Nella piramide degli esaminandi della patente i vecchi sono giusto un gradino sopra i privatisti stranieri. Se sei privatista e non parli bene italiano il quiz è impossibile anche con una grossa dose di culo perché forse non tutti sanno che l’ha scritto Bartezzaghi dopo aver copulato con la Susy quella dei quesiti. Alla fine ti convinci che sia vera anche la domanda: Catadiottro è una bestemmia?

Dopo l’esame ti tocca uscire e aspettare l’esposizione del tabellone, vecchia come sei fingi di essere lì per vedere i risultati di tuo figlio, ti mimetizzi tra la folla, un gruppetto di diciottenni esulta, i tre sono passati, sprizzano gioia da tutti i brufoli, urlano “si gode!” che scopri essere un’espressione in voga tra gli adolescemi. Quelli che non sono passati si guardano con mestizia, ridandosi appuntamento a scuola guida, chi non gode si rivede. Omar, privatista sudamericano, ha sbagliato 29 domande su 30, ha risposto “vero” alla domanda “l’LSD aumenta la concentrazione alla guida”. Omar si allontana sorridendo, sale su un’auto e va via sgommando. Cazzotene Omar, hai passato il riconoscimento facciale, chi si accontenta gode!  

Vicino al tuo nome c’è scritto: idonea. Tu che non riesci manco ad entrare nel registro elettronico dei tuoi bambini. Scoprirai il giorno dopo di aver fatto un solo errore. Si gode, ma solo dentro, davanti al tabellone fingi di gioire per l’ottimo risultato di tua figlia, quanta fatica e quante soddisfazioni ti dà quella ragazza che hai avuto da così giovane.

Ora ti toccherà imparare a guidare, per questo ti allontani nelle nebbie di Avalon che circondano la motorizzazione, bestemmiando i catadiottri lassù e imprecando contro Omar, che almeno un passaggio te lo poteva dare.

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La massoneria massaia del sacro tupperware.

Esiste una setta di cui non si parla abbastanza, un gruppo di massoneria massaia che venera il culto del sacro tupperware. Le adepte al sacro tupperware sono tra noi, le riconosci perché per i figli rinuncerebbero senza indugio a un braccio o a un loro organo interno, solo che se glielo dessero dentro un tupperware, il contenitore lo rivorrebbero indietro. Lavato.

I tupperware si presentano di ogni foggia, colore, ci sono quelli retrattili, quelli microondizzabili, quelli piccoli come gusci di noce per la merenda di baby Picchio, quelli grandi che ci puoi mettere i resti di un bisontificio. Le devote custodiscono nelle loro cucine la sagrada familia di tupperware, un’opera instabile e in perenne evoluzione, perché ogni piano nasconde al suo interno un’ulteriore matrioska di recipienti. Queste costruzioni sono note come altarini al venerato Earl Tupper, fondatore del culto.

Le adepte vengono iniziate durante i cosiddetti party tupperware, dove nuove groupies del polietilene si presentano alla porta della Madre Stappona pronunciando la parola in codice: FidOlio. Cosa si faccia esattamente durante i party tupperware purtroppo lo ignoro, non mi ci hanno mai invitato, credo che vadano forti i baccanali di insalata di riso, piatto patrono delle schiscette.

Sono cresciuta con l’invidia del tupperware, questo perché a casa mia non ne è mai entrato uno. La regola di mia madre era: perché acquistare qualcosa di utile, durevole e alla fine anche economico quando puoi sostituirlo con un oggetto vicario, raffazzonato, in ultima analisi inservibile e persino controproducente, ma reperibile senza ulteriore spesa? Perché comprare un tupperware quando puoi usare il contenitore delle mozzarelline? Semplice, perché il contenitore una volta aperto non si richiudeva più, ma non importa perché il contenitore di mozzarelline potevi ulteriormente irrobustirlo con metri di domopak.

Mia madre spellicolava come se non ci fosse un domani, i cibi ne uscivano tipo le valigie nei viaggi intercontinentali, per capire che minchia ci stesse dentro dovevi passarli ai raggi x. Oppure li abbandonavi nel loro bozzolo in frigo e aspettavi che si schiudessero da soli dopo qualche mese.

Sono cresciuta nella convinzione che i contenitori, le mollette per i panni e gli stracci da cucina non si comprassero, ma si ricevessero in dote o si rubassero, esattamente come i boccali di birra. Non me ne vanto, ma è così. Infatti l’unica esperienza di tupperware della mia vita l’ho fatta sottraendone un esemplare alla mia suocera numero 1 (ora ne ho anche una due, forse la prima bisogna chiamarla suocera emerita e la seconda suocera in carica come i papi). Mi è stato subito evidente però che il tupperware rispondesse solo alla sua padrona, a me non prendeva sul serio, faceva casino, si disuniva, sempre un tappo là e il resto qua. Alla fine l’ho dato a Lorenzo per portare il pranzo a scuola, me l’ha restituito dopo sei mesi, all’interno è uscito Tuppy, un piccolo cucciolo di muffa a pelo lungo che abbiamo liberato in natura, insieme ai bozzoli di domopak.

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La solitudine dell’adulta.


All’adulta hanno detto che deve amare sé stessa, ma lei senza gli altri non sa chi è. Le
viene il sospetto che l’esaltazione della solitudine, la grande invenzione del suo tempo,
sia un modo gentile per giustificare, forse addirittura educare all’isolamento. Pensa a una
storia letta in un libro. Due canarini cantano felici, un giorno uno muore e l’altro smette
di cantare e poi di mangiare, deperisce, perde le piume, è in fin di vita, finché la sua
padrona ha l’idea di mettergli un piccolo specchio nella gabbietta. E il canarino torna a
cantare. Non canta per vanità, canta perché pensa di non essere più solo. L’adulta vede
tanti uccellini che cantano allo specchio dello schermo, cantano le loro opinioni, lei
stessa a volte l’ha fatto, lo fa. È un canto che, a un ascolto più attento, ha una nota di
follia.
Un’adulta è tenuta a sapere cose che nessuno è tenuto a dirle, cose burocratiche
soprattutto che scopre solo mancando o sbagliando. Avrebbe voluto ricevere in dote il
manuale delle scadenze, invece delle lenzuola e delle tovaglie ricamate, uno scrigno di
nozioni, di sequenze operative, di “aprire in caso di”… come funziona una 104, come
chiedere l’indennizzo, come fare per il rimborso, lo sgravo fiscale.
Un’adulta deve fingere di conoscere molte più cose di quelle che sa. La maggior parte del
tempo improvvisa, l’età adulta è tutto un e che dio me la mandi buona.
A volte l’adulta si domanda come amerebbe se non avesse nutrito la sua adolescenza e la
sua giovinezza di immaginazione. Come amerebbe al netto di film, libri, storie. Cos’è
l’amore se non lo racconti? E cos’è l’amore senza i racconti?
L’immaginazione è la salvezza e la condanna dell’adulta. È una di quei protagonisti dei
cartoni animati che si trova a cadere nel vuoto e tenta di salvarsi tenendosi da solo dal
colletto della giacca. L’immaginazione è questo: il conforto nella caduta, l’illusione di
poter fermare lo schianto o almeno ritardarlo. O forse l’immaginazione è tutto, è lei che
cade, la roccia del canyon, la giacca (perché dovrebbe indossare una giacca in mezzo al
deserto?). L’immaginazione è ciò che ci fa cadere e ciò che ci mette in salvo.
L’adulta di cui parliamo cresce dei bambini, i suoi. Tra genitori si dice che i bambini
abbiano bisogno di abitudini, di routine. Ma le pare che la routine serva ai grandi, per
rassicurarli. Più le cose si sono fatte caotiche e più quella parola ha perso la sua
accezione soporifera ed è diventata confortante, un suffisso che cura e rassicura. La
beauty routine, la routine delle pulizie, la routine alimentare. La routine come nuovo rito
propiziatorio degli adulti, se faccio tutto giusto, se seguo il protocollo, le cose andranno
bene. Capita che l’adulta si senta una bambina andata a male.
L’adulta è ancora figlia, si è pur figli anche se la madre non c’è più. Per quanto l’Io sia
spazioso e ben areato è sempre un posto troppo stretto dove vivere, l’adulta ha bisogno
di un Noi. La morte di sua madre ha chiuso il primo Noi che ha abitato, quello

originario, il noi che non scegli. Si sono chiusi tanti altri Noi nel tempo, come porte di
case vissute e poi lasciate.
Quando pensa alla madre ritorna bambina, ricorda quando per addormentarsi si suonava
le costole come fossero tasti del piano, chiusa nel suo abbraccio solitario. La tentazione
della tenerezza per quella bambina è forte e l’adulta sa che bisogna tenerla a bada o si
finisce per perdonarsi tutto, si finisce per scrivere lettere lacrimose da recitare allo
specchio. L’adulta sa che la tenerezza è bene tenerla da parte per gli altri.
All’adulta viene in mente un pezzo di De Gregori che parla di quando era piccolo, il
ritornello dice: e tutto mi sembrava andasse bene, tra me le mie parole e la mia anima. è ancora
così si ripete l’adulta, questa è la vita in stato di grazia: quando tutto ti sembra andare
bene, tra te, le tue parole e la tua anima.

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BUON RISORGERE

Ecco a te la parola più preziosa: RISORSA, falla tua.

Risorsa non perde di valore, non è inflazionata, è una piccola miniera, un giardino nascosto, un giacimento sotterraneo, l’acqua prima di farsi sorgente, è ciò che ti salverà dal sentirti niente. Risorsa è quel che ti resta quando il resto va, è moneta sicura, è l’inattaccabile coscienza che se un senso c’è sei tu a doverlo stabilire, risorsa è il godere di se’, è risorsa piangere leggendo un libro, cantare in bici, sorridere ai cani, la voce degli amici, i racconti degli anziani, tutto ciò che è bello e buono per te, risorsa è la gentilezza che risuona, risorsa è la pepita che non ti fa sentire perduta.

Risorsa è uscire e correre, risorsa è l’odore del bosco, il richiamo del nostro animale che ci dice nonostante tutto hai fame, risorsa è il lascito dei morti, il silenzio della chiesa, la pace senza resa,

è risorsa l’adesso basta, la goccia che trabocca, il punto di rottura, è risorsa riuscire a stare nel dolore perché altrimenti non c’è cura, è risorsa ciò che intrattiene la mente in attesa che la raggiunga il cuore. Risorsa è farci in casa il nostro sole. Risorsa è il tuo capitale, cresce col tempo se lo sai coltivare, se lo alimenti di bellezza, di sapere, una ricchezza che non consente speculazione, non toglie agli altri, ma ti permette di dare agli altri il giusto valore. Risorsa è l’ironia del vivere, la fortuna dei diseredati.

Risorsa dal latino resurgere. Perché è quello che rende l’uomo divino: sappiamo risorgere anche se ci sembra impossibile, anche se dimentichiamo che a nascere e morire sono bravi tutti, ma risorgere quello sì è roba da ricchi.

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Chiamatemi acufene

Un’amica diceva che l’adolescenza è un virus, lo si può prendere forte o lieve, comunque viene per nuocere ma, se tutto va bene, crea gli anticorpi per l’età adulta. Per un genitore è straniante, l’adolescente è troppo dentro per gestire il cambiamento e tu troppo fuori per capire il cambiamento. Ma il virus è tra noi. 

I piedi da bambino del tuo primogenito, con quelle dita piccine come i minuscoli acini d’uva del grappolo (quelli che non osi mangiare perché ti inteneriscono), adesso quei piedi sono dei monolocali. Tra l’altro monolocali poco areati. Tutta l’adolescenza è un luogo umido e poco areato, di odori forti coperti da profumi nauseanti.

Scopri che un adolescente non si alza dal divano, lui scivola, sguscia, prima le gambe, la schiena e poi il resto del corpo di gelatina, una volta a terra indugia in foggia di bruchide invertebrato, da anguilla agonizzante tende le mani al cielo pietendo un aiuto per tornare in posizione eretta. D’altronde un adolescente non si siede sul divano, ci salta in tuffo carpiato, ne prende possesso a volo d’angelo. Si consideri inoltre che un adolescente non sta seduto sul divano, lo usa come un circo a due piste per contorsioni sempre più complicate. Può capitare che guardiate un film, tu ti giri e lui si è infilato la testa nel culo. Non ti disunire! Urli. Il divano è la metafora delle gonadi della genitrice. 

Quante volte gli adolescenti pensano all’impero romano? Poche, ma in compenso sono in fissa per l’Etruria: vogliono tutti il ciuffo etrusco. Salta fuori Porsenna maestro di stile. Il ciuffo etrusco è una frangia al contrario, una frangia in assenza di gravità. Hanno attenzioni maniacali per i capelli e per le scarpe, i due monolocali Nike sono trattati come dei cuccioli di foca, raggiungono delle cifre assurde, probabilmente sono fatte con cuccioli di foca. 

Gli adolescenti adolescono in tempi diversi, all’uscita della scuola di tuo figlio sembra che abbiano somministrato il siero del supersoldato a macchia di leopardo. Parlano per metà come Farinelli e per metà come Optimus Prime, ma non importa che voce abbiano perché i loro discorsi sono fatti della stessa sostanza delle minchiate. Sono brutali, al telefono soprattutto si parlano per monosillabi. Si chiamano per chiedersi di uscire, attaccano e non si sono chiesti di uscire, quindi si mandano messaggi vocali per chiedersi di uscire. Non escono. 

Quando parli al tuo adolescente non ti risponde mai. Non chiamatemi mamma, chiamatemi acufene. Sono certa che mi percepisca così, un suono fastidioso ma incomprensibile, la cui origine è ignota.

Se Esselunga avesse usato il tuo adolescente per lo spot non ci sarebbero state polemiche. Avresti domandato di prenderti una pesca davanti a una piramide di pesche e lui, fissando la piramide di pesche, avrebbe comunque chiesto dov’è? Senza guanto e sacchetto avrebbe preso la pesca dalle fondamenta della piramide, generando una frana di pesche e, di fronte al disappunto tuo e di tutta la Esselunga, ancora con il frutto in mano, avrebbe pronunciato la sua frase preferita: Non è colpa mia. 

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